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IL NEMICO ALLE PORTE
(ENEMY AT THE GATE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 7 giugno 2001
 
di Jean-Jacques Annaud, con Jude Law, Ed Harris, Joseph Fiennes, Bob Hoskins (Stati Uniti - Francia, 2000)
 
Storico che meglio avrebbe fatto a dirsi western, prodotto con capitali germano-americani, diretto da un francese: il che spiega molte cose. Perché mai, ad esempio, (siamo al terribile e determinante assedio di Stalingrado del 1942: che Jean-Jacques Annaud inizia a filmare con dovizia di primi piani al bengala e totali desolate quanto ispirate all'ormai imprescindibile SOLDATO RYAN spielberghiano) il ragazzino russo si esprima in un inglese da far invidia a sir Laurence Olivier. Non solo: ma pare intendersi alla perfezione nello stesso idioma con i disgraziati compatrioti rintanati fra le macerie della martoriata città. Il tutto si fa ancora più sorprendente quando giunge da Berlino (vagone ristorante, champagne, panorama dal finestrino sulle disastrate distese innevate) il glaciale maggiore inviato da Hitler (Ed Harris, malgrado tutto la cosa migliore del film): adesca il ragazzino con la classica tavoletta di cioccolata, pure lui assolutamente senza problemi di comunicazione in quanto altrettanto padrone dell'idioma di Shakespeare; e di chi ha finanziato il film. Senza dovervi raccontare IL NEMICO ALLE PORTE per intero, basti sapere che all'origine della trasferta non sono tanto le sorti della città; che il suo fuhrer aveva notoriamente posto da tempo fra le poste attive. Quanto la presenza di un implacabile cecchino proveniente dagli Urali, che da solo sta provocando più danni all'inarrestabile macchina del Reich di tutta la scalcinata armata rossa (detto per inciso: ma come lo spiega il nostro Annaud che quei poveretti, in pratica armati di clave ce l'abbiano fatta alla fine contro quei perfezionisti nazi?). Manco a dirlo, il primitivo cacciatore di lupi della steppa sbarca in una Stalingrado dove si parla come a Bond Street (in tutto il film si sentiranno un paio di ingiurie in un russo che pur dovrebbe fare perlomeno atmosfera; e qualche titolo di giornale in cirillico) padroneggiando perfettamente l'inglese.

Mi direte: ma in BEN HUR, non è che da una biga all'altra conversassero in latino. Non è la stessa cosa: qui, pur tra le balalaike e Lili Marlène di comodo la plausibilità di IL NEMICO ALLE PORTE non doveva essere tanto storica. Quanto logica. Ed espressiva: in un momento dell'incerta evoluzione umana in cui l'impossibilità di comunicare avrebbe dovuto spiegare il tutto. Non tanto lo scontro fra due armate; ma fra due modi, assolutamente inconciliabili d'interpretare il concetto di convivenza (e quindi pure di comunicazione) civile. Ex regista dalle discrete esigenze (LA GUERRA DEL FUOCO, L'ORSO o IN NOME DELLA ROSA non mancavano di dignità) Annaud si premura di adeguarsi fin dalle prime sequenze alla più pigra e frettolosa delle conclusioni: quella solita dei due estremismi che finiscono per assomigliarsi. Dipinge un Krousciov che arringa le truppe come un suino esagitato, riferendosi a Stalin come (figuriamoci) a The Boss; poi tira a campare con i soliti graduati della Wehrmacht dai pantaloni con la piega impeccabile che riescono a fare la doccia sotto le bombe.

Gli è che IL NEMICO ALLA PORTE doveva essere, come si diceva, un western; e senza attendere quel finale clamorosamente ispirato da una iconografia alla Sergio Leone. È infatti nell'interminabile duello nel mirino del cannocchiale fra i due cecchini (autentico: pare che il cacciatore di lupi assurto per comodità del Piccolo Padre a simbolo della Liberazione fosse riuscito a liquidare 242 graduati tedeschi; prima che gli trasferissero il cacciatore di cervi bavaresi) che il film riesce per qualche istante a significarsi. Limitandosi al duello di astuta, asettica crudeltà fra i due sniper, ad Annaud sarebbe forse riuscita l'impresa che platealmente gli sfugge hollywoodiando il massacro da un milione di disgraziati: parlarci del disumano.


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